A grande richiesta racconto, per quanto ricordo, il passato della mia vita.
Nacqui in un giorno freddo, l’8 febbraio dell’anno 1929. I genitori mi dissero che era stato l’inverno più freddo che loro ricordassero. Come succedeva a quel tempo, nacqui in casa, edificio che aveva il pomposo nome di villa Vitalba. Oggi l’edificio non esiste più in quanto demolito negli anni 40 (del secolo scorso) per allargare la strada della Valsugana all’ingresso di Bassano. Ricordo che la gente però diceva che la demolizione era stata attuata per consentire al generale Giardino (in statua, non in carne ed ossa ) di ammirare il monte Grappa
Di quella casa ho ottimi ricordi in quanto là ho passato la prima infanzia. Nell’edificio vivevano 3 famiglie: una (blasonata) di un farmacista, la nostra e quella di un certo Macia (soprannome veneto che significa vivere un po’ alla giornata) con tre figli. La casa aveva un bel giardino che scendeva a balze verso la sottostante campagna e un grande prato chiamato prà di S. Caterina. Fortunatamente in quell’epoca non esisteva la lega della protezione degli animali perché, assieme ai figli del Macia, facevo esperimenti sulla caduta di gatti e cani dalla finestra di casa con arrivo nel sottostante giardino (altezza approssimativa 10 mt.). Lo facevamo non per studiare la caduta dei gravi (per l’occorrenza poteva andare benissimo un bel sasso) ma perché volevamo controllare quanto scritto in un libro e cioè che il felino cadeva sempre sulle quattro zampe. Noi, per migliorare l’esperienza fatta da altri, lo si faceva cadere fornendogli una rotazione sia lungo il suo asse maggiore che combinando tale rotazione con una seconda perpendicolare. Ricordo che la povera bestia dopo i primi tuffi cercava di evitarci ma noi testardi a riprovare finché un ramo di un albero sottostante non le ruppe la spina dorsale. Non ci rimase che provvedere alla sepoltura. Però riuscimmo a controllare che in effetti muovendo la sua coda riusciva a cadere sulle quattro zampe (e a prendere delle belle spanciate data l’altezza da cui lo lanciavamo). Pensandoci oggi, eravamo degli esseri crudeli. Andavamo anche a caccia di lucertole infilandole nelle nostre tasche per la delizia delle rispettive madri.
Frequentavo un asilo situato nella parte ovest di prato s. Caterina e condotto da suore (di quale ordine non ricordo). Mia madre mi portava al mattino con addosso il grembiulino ed in mano una cartella di cartone contenente i viveri per la sussistenza pomeridiana. In quell’ambiente dovevo comportarmi bene perché altrimenti erano guai seri per un bimbo. A quel tempo non si poteva reclamare né i genitori difendere i loro pargoletti!
Nel corso della permanenza a villa Vitalba, ricordo anche una notte particolare in cui una tromba d’aria (così la definì mio padre) scoperchiò l’edificio e mio padre con assi, chiodi e martello bloccò le imposte affinché la furia del vento non entrasse dentro le stanze.
Dopo villa Vitalba andammo ad abitare in v. Zaccaria Bricito in una abitazione che aveva come unico sfogo un lungo e stretto terrazzo fatto ad L. Purtroppo non c’era il precedente giardino!
Però le monellerie non cessarono e la nostra mente fervida ne inventava continuamente di nuove. Ricordo gli esordi con la bicicletta: dovevo usare quella di mamma perché la conformazione “da donna” mi permetteva di essere adoperata anche da bambini. Un giorno, non riuscendo ad indirizzarla in modo conveniente, andai a fermarmi fra le gambe di un donnone. Costei resistette all’urto ma strinse le gambe bloccando la ruota anteriore della bici impedendo così una mia retromarcia e conseguente fuga. L’intervento di un amico mi consentì di uscire in modo decente dall’impasse. L’unione fa la forza!
Papà era pazzo per le moto. Ne ha cambiate parecchie tutte particolari. Ha posseduto la Sertum, l’Indian con il manubrio che, sagomato ad “U”, arrivava fino alle cosce, la Gilera, la Guzzi 500 ed altre. Era naturale che ne volessi provare qualcuna assieme ad altri miei amici! In quel tempo il traffico non somigliava minimamente a quello attuale e pertanto una volta che riuscivi a partire l’unico pericolo era rappresentato dai paracarri e dalle alberature situate a fianco della carreggiata… e dai viandanti. Poiché le cilindrate erano notevoli ma le potenze non commisurate, con gli amici studiavamo tutti i sistemi per poterle aumentare: avevamo anche escogitato di applicare un interruttore al circuito dinamo–batteria al fine di ricuperare la potenza assorbire da quest’ultima. Un ricordo fra i tanti: una sera d’estate una moto non riparte più. La benzina c’era ma la moto non voleva ripartire. Con i fari delle altre moto facevamo luce quando (eravamo in aperta campagna) arrivò un contadino con una lampada a petrolio e disse di volerci aiutare avvicinando in modo pericoloso la lampada al carburatore della moto. Tutti, meno il contadino, facemmo un salto indietro per timore di un incendio e dovemmo convincerlo del pericolo affinché si allontanasse dalla moto. Per nostra fortuna le moto dell’epoca avevano tutte le parti accessibili, senza elettronica sofisticata e pertanto dopo una pulitura degli elettrodi della candela, la pulitura dei contatti interni del distributore dell’alta tensione, il motore cominciò a ruggire con nostra soddisfazione.
A Bassano (erano i tempi in cui non c’erano cambiamenti climatici in atto) ogni inverno nevicava abbondantemente anche se il manto durava poco (una settimana) ed io ne approfittavo per andare a scivolare sul pendio che da via XX settembre andava sino alla piana del prato di s. Caterina. Rientravo a casa da strizzare tanto ero bagnato per le cadute e per le palle di neve che scambiavo con gli amici.
Là vissi in modo continuativo fino 13 anni e saltuariamente fino a 18 perché dopo la scuola media andai a studiare a Vicenza. A Vicenza vivevo in una stanza in affitto e, data l’età, avevo anche tanta fame che non riuscivo a dominare in quanto la tessera alimentare non me lo consentiva (era il periodo dell’ultima guerra mondiale e c’era carestia di generi alimentari). Mi rifocillavo a fine settimana a Bassano. Un bel giorno di sabato sera con alcuni amici coetanei bassanesi ci recammo a Porta s. Bortolo di Vicenza per salire sul trenino (denominato “la vacca mora” in quanto la locomotiva sputava fumo nero che entrava, durante la folle corsa, nei vagoni dalle fessure dei finestrini) ed apprendemmo che la linea era stata bombardata e pertanto non si poteva rincasare. Tutti noi, a corto di soldi e con tanta fame in corpo, decidemmo di chiedere un passaggio ai rari mezzi in transito. Ci accolse un camion militare tedesco il cui autista ci impose di rimanere sopra il telone che copriva il carico. Resistemmo poco perché il freddo dei quel gennaio e la neve che cadeva (in quel tempo nevicava anche a Vicenza e a Bassano) ci spinsero a ripararci sotto il telo. Una volta al riparo scoprimmo il perché del divieto: il camion trasportava sacchi di zucchero. In località Sandrigo l’autista si ferma e, prima che noi riuscissimo ad uscire dal riparo, lui corse a controllarci e, trovandoci in fallo, ci fece scendere sotto la minaccia del suo mitra. In quel punto eravamo a circa 20 Km da Bassano, erano le ore 2 del mattino e nevicava. Il traffico era nullo e pertanto decidemmo di avanzare a piedi camminando al centro della strada per essere ben visibili alle pattuglie notturne sia tedesche che italiane (era in atto il coprifuoco e chi era sorpreso fuori casa dopo le ore 20 poteva essere abbattuto sul posto o portato in cella). Al gruppo andò bene fino alle porte di Bassano allorché un perentorio altolà ci gelò il sangue. Ci riprendemmo subito scoprendo che era una pattuglia italiana composta da dei poveracci costretti a girare nelle ore notturne armati con fucili da caccia. La spiegazione della nostra situazione è stata veloce e loro ci indicarono le strade da seguire per non incappare in altre ronde.
Alla fine, verso le ore 5 del mattino arrivammo in centro di Bassano con piedi gonfi, stanchi ed assonnati. Mi ricordo che dormii tutta la giornata seguente.
Qualche giorno dopo, mentre passeggiavo per Bassano fui prelevato, assieme ad altri, dai tedeschi, e caricato su di un camion per essere portato a Cismon del Grappa dove ci alloggiarono in un baraccamento costruito sotto un ponte ferroviario. Lì stetti affranto nello stomaco (avevo una gran fame) e nel fisico (dovevamo scavare trincee) per circa una settimana. La mia fortuna è stata di incontrare la capa tedesca dell’accampamento, di conoscere qualche parola di tedesco e di far presente la mia situazione di studente in quel di Vicenza. In breve ottenni una strisciolina di carta alta 4 cm. e larga 20 in cui si certificava in tedesco che io potevo muovermi da Bassano a Vicenza e viceversa per ragioni di studio. Fu la mia salvezza. Infatti quando rientrai a casa da Vicenza al sabato successivo appresi la notizia del bombardamento del ponte sotto il quale c’erano i baraccamenti e purtroppo dei morti e feriti conseguenti. Quando si dice di essere fortunati e di prendere in tempo le occasioni!!
Mia madre venne una sola volta a trovarmi in quel di Vicenza per controllare la mia sistemazione. Fu un giorno di bombardamento ed all’allarme andammo al più vicino ricovero. I ricoveri erano costituiti dagli scantinati delle case (potete immaginare il loro potere di difesa in quanto la maggior parte degli edifici aveva solai in legno). Fortuna volle che le bombe non erano quelle esplosive ma al fosforo per cui l’edificio prese fuoco tanto che quando uscimmo era rimasto quasi intatto solo il solaio del piano terra.
Un altro brutto ricordo del periodo, sempre a Porta s. Bortolo a Vicenza, riguarda un brutto pomeriggio di un sabato mentre attendevo di imbarcarmi sulla “vacca mora” per tornare a casa. Aerei americani avevano deciso di bombardare il vicino aeroporto con delle particolari bombe che scoppiavano ad altezza d’uomo. (mi dissero poi che scoppiavano a circa 1 mt. da terra in quanto in testa avevano uno spillone il quale, appena toccava terra, innescava l’esplosione). I ricordi di quei momenti non sono chiarissimi perché la confusione era totale ed ogni essere presente cercava solo di salvare la propria pelle. Due fatti mi sono rimasti impressi in modo chiaro.
Il primo: quando mi resi conto che le bombe non formavano delle buche a terra, decisi di cercare un riparo strisciando per terra. In quegli attimi ho dovuto superare anche un corpo in divisa tedesca che aveva il ventre aperto.
Il secondo: durante quella folle fuga strisciando a terra, sentii tre colpi: una alla testa, il secondo alla schiena ed il terzo alla coscia destra. Quando gli aerei finirono l’incursione e potei rialzarmi senza pericoli, controllai la causa delle tre percosse: erano tre schegge non più grandi dell’unghia del dito mignolo. Quella della coscia si era fermata alla superficie della pelle dopo aver rotto cappotto e calzoni. Quella alla schiena aveva avuto fortunatamente la stessa idea. Non altrettanto quella ricevuta sulla tesata: aveva provocato una ferita dalla quale usciva copiosamente sangue. L’ospedale di Vicenza a quel tempo era nei paraggi e mi recai subito. La confusione regnava sovrana a causa dei feriti più o meno gravi presenti.
Venne più tardi il mio turno ed uscii con una garza che dovevo tenere sulla ferita con una mano in quanto l’ospedale aveva finito i cerotti. Avevo con me un baschetto che usai al posto della mano. Per allontanarmi dal posto e dirigermi verso Bassano, trovai un passaggio esterno su una autovettura in transito (esterno perché poggiavo i piedi sul predellino e con le mani mi aggrappavo alla portiera).
Dopo qualche giorno un continuo mal di testa mi assillava giorno e notte. Toccando la ferita sul capo capii che la scheggia non era stata estratta, perché non vista dal chirurgo, e che la stessa aveva avuto la bella idea di retrocedere fra cranio e cuoio capelluto e di appoggiarsi su di un nervo proprio nel suo punto di ingresso. Ritornai all’ospedale di Vicenza. Colà mi dissero che avrebbero estratto la scheggia ma senza anestesia perché erano all’emergenza. Acconsentii il taglio dopo aver chiesto al chirurgo di agire in fretta. Dopo mi sembrò di rinascere.
Durante una guerra nel corso della quale sono implicati pesantemente anche i civili, il rinascere dipende anche dall’estrazione di una scheggia!
Bei tempi? Da parte mia dico che si viveva molto alla giornata ed alla sera si cercava di dormire sperando che l’indomani fosse migliore. Voi che leggete che ne pensate?
Piero Battiston, classe 1929